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dei diritti e delle pene

Il Blog di Davide Steccanella

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Postilla » Diritto » Il Blog di Davide Steccanella » Diritto penale e processuale » La liberazione condizionale e la “lettera scarlatta”

12 luglio 2011

La liberazione condizionale e la “lettera scarlatta”

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Qualche volta capita che sia il legislatore a scrivere male la legge ma qualche altra volta capita invece che sia il suo interprete designato a male applicare una legge scritta bene, è il caso, lo diciamo subito, della più recente tendenza giurisprudenziale in materia di liberazione condizionale, ovvero di quella speciale causa di estinzione della pena prevista all’art. 176 del capo II del titolo VI del Codice Penale.

La indicazione della “collocazione” sistematica di tale norma è fondamentale per comprendere preliminarmente che se è vero che la competenza a decidere in subiecta materia spetta, ai sensi dell’art. 682 Cpp, al Tribunale di Sorveglianza, ciò non significa affatto che la liberazione condizionale (introdotta, seppure in seguito modificata, ancora nel 1930) possa in alcun modo essere inquadrata tra tutte quelle norme extra codice (vd. legge Gozzini) di più recente introduzione che prevedono il ricorso a forme alternative alla detenzione per la esecuzione della pena inflitta, e che, come noto, costituiscono l’abituale alveo decisionale del Tribunale citato.

In altri termini e per meglio chiarire quello di cui si sta parlando, non si tratta di un “beneficio” o di una diversa modalità carceraria, bensì di un vero e proprio diritto stabilito dal Codice Penale.

Il che comporta la necessità di affrontare l’art. 176 Cp seguendo due fondamentali e peculiari principi di base che regolano l’intero sistema generale del nostro Ordinamento penale.

Il primo è che trattandosi di causa di estinzione di pena, e come tale collocata insieme alle altre cause estintive di reato o di pena nel citato titolo VI (sospensione condizionale, prescrizione, indulto, grazia, morte del reo, remissione querela, riabilitazione etc.) e non già di sua modalità esecutiva alternativa, la funzione del Giudice che la deve applicare si presenta più di natura accertativo-dichiarativa che valutativa o premiale.

Il secondo è che trattandosi di norma penale sostanziale occorre necessariamente rifarsi ai noti principi di certezza e tassatività (con conseguente divieto di analogia) nonché di irretroattività eccezion fatta per l’applicazione del principio del favor rei, il che sostanzialmente significa il dovere da parte del Giudice di applicare nulla di più e nulla di meno di quanto era scritto al momento in cui ha avuto inizio la commissione del reato.

A seguito dell’ultima modifica del 1986, l’attuale art. 176 Cp stabilisce che “il condannato a pena detentiva che durante il tempo di esecuzione della pena abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento può essere ammesso alla liberazione condizionale se ha scontato almeno la metà della pena inflittagli qualora il rimanente pena non superi i 5 anni” e con specifico riferimento ai condannati all’ergastolo al terzo comma che “il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di pena”.

La norma pertanto, anche per il condannato all’ergastolo, è molto chiara, per accedere alla causa estintiva di cui all’art. 176 Cp occorre che si siano verificate due precise e tassative condizioni di cui una sola delle due risulta affidata alla valutazione del Giudice, essendo l’altra meramente temporale, e pertanto del tutto oggettiva (almeno 26 anni di pena scontata).

Quindi una volta ritenuta, a seguito di rapido conteggio matematico della pena già eseguita, per così dire “ammissibile” la richiesta in oggetto, il Tribunale adito dovrà solo valutare la sussistenza o meno dell’ulteriore requisito, ovvero che il comportamento del condannato durante la esecuzione possa fare ritenere sicuro il suo “ravvedimento”.

Fermo restando che il concetto di “ravvedimento” non può certo richiamare concetti meta-giuridici è necessario capire, attraverso una lettura sistematica del Codice Penale, cosa il legislatore del 1930 avesse inteso allorché ebbe ad inserire, quale condizione necessaria a questa ipotesi di estinzione di pena, l’accertamento del sicuro ravvedimento del condannato.

Posto che da nessuna altra parte del codice è dato di ravvisare siffatto termine, cominciamo da un semplice ragionamento ad excludendum per ricavare che non ci si può richiamare nè a quella previsione di “recesso attivo” di cui all’ultimo comma dell’art. 56 Cp o di cui all’art. 605 Cp et similia, né al diverso concetto di “risarcimento” della vittima di cui alla speciale attenuante ex art. 62 n. 6 Cp che oltretutto richiede, come peraltro nel caso di recesso, che la condizione si verifichi prima del Giudizio di cognizione.

Tornando quindi alla norma in oggetto risulta di immediata evidenza l’inserimento di un duplice e fondamentale richiamo di natura temporale sia con riferimento al momento in cui il comportamento previsto viene richiesto, sia con riferimento al momento in cui detto comportamento deve essere valutato quale ravvedimento ai fini imposti dall’art. 176 Cp, momenti che, come è evidente, non coincidono affatto.

Il comportamento del detenuto infatti viene valutato in un momento di molto successivo al suo effettivo verificarsi, giacchè, nel caso dell’ergastolano, il Giudice è chiamato a valutare come prova di odierno “ravvedimento” un comportamento progressivo ed assai lungo tenuto dal condannato nel corso dei suoi precedenti 26 anni di detenzione.

Potremmo dire che si tratti di una sorta di “coda” e di molto successiva a quella precedente valutazione fatta dal Giudice di cognizione al momento di quantificare la giusta pena secondo il disposto di cui all’art. 133 Cp che richiede, come noto, alla lett c) di valutare anche la condotta susseguente al reato, giacchè al Giudice della esecuzione viene in questo caso richiesto di valutare molti anni dopo la condotta susseguente all’inizio della detenzione.

In pratica il Tribunale di sorveglianza deve ricostruire il solo precorso carcerario del condannato e solo sulla base di quello decidere poi se ricorra o meno il requisito dell’intervenuto ravvedimento, nulla di più e nulla di meno.

Ecco quindi che al solo e limitato detto fine possono ben soccorrere, e non già quale similare alveo applicativo bensì quale utile strumento di valutazione, tutte quelle precedentemente citate norme che facoltizzano misure alternative alla detenzione, giacchè, tanto per dire, se il condannato all’ergastolo beneficia proficuamente da anni del regime della semilibertà (ovvero si reca al lavoro durante il giorno e fa ritorno in cella per la notte), la certezza dell’intervenuto ravvedimento è già belle che… raggiunta e comprovata in modo concreto, mentre più approfondita dovrà invece essere la indagine del Tribunale di sorveglianza in caso di reclusione mai interrotta, ma anche a tale fine si ritiene che gli incidentali provvedimenti in materia di liberazione anticipata (beneficio che abbuona ogni 6 mesi 15 giorni di condanna in caso di corretto comportamento carcerario) potrebbero fornire utili elementi di valutazione in tal senso.

Tutto questo appare a chi scrive di preclara chiarezza al punto da non richiedere la stesura della presente nota se non fosse che è risultato che ad alcuni condannati all’ergastolo per i cd. delitti politici degli anni settanta venga da qualche tempo richiesta dai vari Tribunali di sorveglianza italiani una condizione in più per accedere dopo 26 anni di carcere alla prevista estinzione, ossia la prova dell’avvenuto invio da parte del condannato di una lettera di contatto o di scuse alle vittime del delitto per il quale oltre 30 anni fa era intervenuta condanna (???).

In pratica, solo la allegazione di un tale invio, ed a prescindere ovviamente dal suo successivo esito (non trattandosi di domanda di grazia), consentirebbe, secondo le più recenti pronunce, di ritenere sicuro quel ravvedimento richiesto all’art. 176 Cp.

Questa è la altrimenti incomprensibile ragione per cui oggi, pur in presenza di identici destini giudiziari, alcuni condannati all’ergastolo hanno ottenuto la liberazione condizionale ed altri no, né risulta, mi si dice, pendente una loro istanza in tal senso.

Ora, fermo restando che anche dal punto di vista “etico” (che peraltro qui di certo non rileva) imporre ad una vittima a distanza di anni la odiosa invasività anche solo della ricezione di uno scritto proveniente da chi anni addietro ha sconvolto la sua esistenza e per di più al dichiarato fine di consentire a quest’ultimo di ottenere la libertà dallo Stato, è fatto invero increscioso e di raro cinismo (e non a caso contro tale assurda giurisprudenza si è mossa da tempo, e con commendevole impegno, la parlamentare Sabina Rossa, figlia di quel Guido Rossa a suo tempo assassinato da un nucleo armato delle BR), occorre osservare che dal punto di vista giuridico tale “prassi” appare del tutto in contrasto sia con lo spirito che con il dettato della norma de quo.

La liberazione condizionale infatti non è un “premio” che lo Stato concede a chi ha chiesto 30 anni dopo scusa alla parte civile o si è dissociato, bensì una precisa e codificata causa di estinzione di una pena che, dopo un determinato (e ragionato e calibrato) lasso di tempo ha, secondo lo Stato (e non altri…) cessato di dispiegare i propri effetti afflittivi e sanzionatori per il reo.

Residuando quindi da valutarsi il secondo aspetto per cui lo Stato ha previsto (e comminato) una pena, ovverosia quello “recuperatorio” al tessuto sociale della collettività, a questo e solo a questo e non ad altro, occorre fare riferimento per l’accertamento della citata estinzione.

Chiedere inopinatamente alle vittime di “togliergli le castagne dal fuoco” appare, da parte dello Stato, non solo fortemente ipocrita e dimostrativo di una inaccettabile perdita di autorità, ma anche e più semplicemente, a mio modesto avviso, palesemente disapplicativo di una precisa disposizione di legge del Codice Penale che peraltro, al momento del fatto per cui è intervenuta condanna, nessuno poteva prevedere avrebbe successivamente sofferto di siffatta inopinata “aggiunta” giurisprudenziale che fino a qualche anno fa non aveva mai fatto la sua comparsa nei tanti provvedimenti in tal senso.

Mi domando sinceramente come sia possibile che sul punto non intervenga una buona volta la Suprema Corte di Cassazione.

www.avvocatosteccanella.it

Letture: 10056 | Commenti: 7 |
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7 Commenti a “La liberazione condizionale e la “lettera scarlatta””

  1. Emilio scrive:
    Scritto il 6-8-2011 alle ore 20:13

    Intervento della Cassazione? Quella che ritiene che non si può parlare di stupro se una donna indossa i jeans? Meglio di no.
    Dalla situazione della giustizia italiana non se ne uscirà mai se, tra le altre mille assurdità, non si elimina, comunque sia fatta una legge, la possibilità di interpretazione del giudice. Costui si deve mantenere alla lettera della legge, in base al vecchio e saggio principio di dura lex sed lex.
    Probabilmente così si otterrà anche un minor ricorso alla magistratura ed un abbreviamento dei processi, impedendo a chi vive attorno al mondo tribunalizio di vivere in un mondo a se stante, ben lontano dal buon senso comune (mia figlia e molti miei amici sono avvocati ed ho una lontana parentela con un ex dirigente di una sezione di tribunale, per altro molto apprezzato dagli avvocati)

    Emilio

  2. marco scrive:
    Scritto il 11-8-2011 alle ore 19:46

    Il problema è complesso ma non condivido la sua posizione tranchant. Il “ravvedimento” non può essere considerato nello stesso modo per tutti. Occorre fare un distinguo per chi, per esempio, ha spacciato droga ed è stato condannato a 20 anni di carcere e chi alla stessa pena perchè ha ammazzato qualcuno volontariamente. Nel primo caso il concetto può anche coincidere con quello che consente di ottenere i 45 giorni di sconto ogni sei mesi (la liberazione anticipata di cui si fa cenno nell’articolo) praticamente assolvendo alla condizione negativa di non avere avuto rapporti disciplinari. Nell’altro caso necessita qualscosa in più che non aver ingiuriato agenti di polizia penitenziaria o non aver litigato con i compagni di cella.
    Soprattutto quando il fatto omicidiario ha carattere eversivo. Del resto il significato lessicale del termine è “riconoscere di aver agito male e correggersi”.
    Che poi la lettera (che definirla “scarlatta” è un accostamento letterario azzardato che non farebbe piacere nè a Nathaniel Hawthorne nè a quella poveretta della protagonista) di “scuse” sia una modalità indageguata di rappresentare il “pentimento”, di questo si può discutere, ma mi deve dare atto, caro avvocato, che la sua è una posizione troppo…interessata.
    Con stima

  3. Emilio scrive:
    Scritto il 11-8-2011 alle ore 21:02

    E se la soluzione fosse abolire finalmente la legge Gozzini et similia? Sarebbe un primo passo verso la certezza della pena, fatto di cui si sente un gran bisogno.
    Anche perchè è un’indubbia leggerezza (ma mi sembra più corretto usare i medesimi termini del giudizio di Fantozzi circa il film “La corazzata Potemkin”) basare la valutazione di un presunto ravvedimento sul comportamento tenuto in un luogo con indubbie restrizioni e, per giunta, in una situazione di evidente convenienza a condurre una certa condotta. Ora, a parte eccentricità (tipo permesso per dipingere la cucina della zia, fatto vero) e possibili leggerezze dei tribunali di sorveglianza, è indubbiamente assai difficile stabilire se il ravvedimento sia vero o solo una finzione strumentale. Di ciò è prova il non modesto numero di persone ammessi agli sconti di pena che ne approfittano per delinquere tranquillamene. E non vale asserire che sono una piccola percentuale di chi usufruisce di queste agevolazioni: basti pensare al numero dei delitti commessi in Italia di cui non si riesce a trovare il colpevole, la stragrande maggioranza dei casi, a meno di prove di segno opposto. Questo significa che “la certezza dell’intervenuto ravvedimento è già belle che… raggiunta”, collegata ad un più o meno lungo periodo di semilibertà, è solo un’illusione.

    Cordiali saluti.

  4. Andrea Asnaghi scrive:
    Scritto il 30-8-2011 alle ore 19:27

    Caro Davide,
    mi è sempre molto gradita la lettura dei Tuoi interventi (lo dico subito, per tentare di farmi perdonare queste mie “incursioni” nel Tuo territorio); rispetto alla Tua esposizione sul tema sono tuttavia d’accordo con Te solo a metà.

    Sono assolutamente d’accordo sulla pesante discutibilità della necessità (ed ancor più opportunità ed umanità) di uno scritto o analogo atto “pseudo-risarcitorio”; in termini di opportunismo ed ipocrisia anche sociale, contro un normale senso di decenza o anche solo di di rispetto, è una prassi che disapprovo e che non comprendo; in tal senso fai bene a sottolinearne l’inopportunità, ed anche la antigiuridicità (in termini di scarsa significanza).

    Invece non comprendo “l’automatismo” che Tu vorresti attribuire alla libertà condizionale.
    Diverso sarebbe se la legge recitasse (mi scuso anticipatamente per le seguenti pessime modifiche): “il condannato a pena detentiva che durante il tempo di esecuzione della pena NON abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere IMPROBABILE il suo ravvedimento può essere ammesso alla liberazione condizionale”.
    In questo caso, comprenderei appieno il Tuo “belle che … raggiunta” e il successivo ragionamento per cui saremmo in presenza meramente di (Ti cito)”una precisa e codificata causa di estinzione di una pena che, dopo un determinato (e ragionato e calibrato) lasso di tempo ha, secondo lo Stato, cessato di dispiegare i propri effetti afflittivi e sanzionatori” (detto in altri termini, un perdono-riammissione per chi non abbia palesemente perseverato nel … ‘male’).

    Così non mi sembra che sia, in quanto la norma mi sembra davvero contenere un quid pluris (certo, di non facile valutazione) che unisce al background dell-aspetto sociale “recuperatorio” la CERTEZZA di un intervenuto ravvedimento.

    Come sottolinea Marco, inoltre (intervento n. 2), tale valutazione diventa particolarmente difficile (ma al tempo stesso CRUCIALE) quando l’azione delittuosa viene compiuta non nell’ambito di una situazione episodica e\o contingente ma entro un contesto culturale o idelogico ben preciso e radicato nel reo (quale quello politico-eversivo, ma anche, tanto per dire – e per spoliticizzare il problema, quello mafioso).

    Questo perchè non mi sentirei davvero di considerare davvero “ravveduto” chi ancor oggi riesce ad affermare di non essere diventato un patriota solo perchè ” la storia la scrivono i vincitori”, oppure chi non ha abbandonato assolutamente vecchi schemi di pensiero e di comportamento (ripeto, un paragone con il mafioso mi sembra indispensabile per far uscire il tema da un inutile contrasto idelogico).

    grazie e ciao.

  5. steccanella scrive:
    Scritto il 31-8-2011 alle ore 01:32

    A mio parere Andrea (ma anche Marco) confondete l’oggetto del richiesto ravvedimento che necessariamente deve riferirsi allo specifico crimine per cui è intervenuta condanna e non certo al pensiero del condannato. Continuare ad avere o manifestare le proprie idee in assenza di comportamenti delittuosi non dovrebbe impedire il citato diritto, altrimenti dovremmo ipotizzare uno Stato etico e sia consentito anche un pò…dittatoriale. Restando in tema i vati sconti di pena concessi ai dissociati (altra cosa dai pentiti) richiedevano espressamente una presa di posizione antitetica a quella fino a quel momento proclamata, qui stiamo parlando di gente che si è fatta in silenzio 20 o 30 anni di galera per non abiurare alla propria idea giusta o sbagliata che fosse nonostante l’allettante alternativa di cui molti ebbero invece a beneficiare, chieder loro di dissociarsi oggi dopo avere, a differenza di altri, scontato quasi l’intera pena mi pare sinceramente anche poco equo.

  6. Andrea Asnaghi scrive:
    Scritto il 1-9-2011 alle ore 20:16

    Davide, ti confesso che ricercare la prova regina del “sicuro ravvedimento” di un individuo mi procurerebbe numerosissimi dilemmi ed imbarazzi.
    Tuttavia il tuo parallelo (in negativo) con la dissociazione non mi convince.

    Se condivido (apprezzo in tal senso il Tuo sforzo di raggiungere un criterio obiettivo) che il ravvedimento si riferisca non al pensiero ma al crimine sottoposto a condanna, e’ proprio quando quel crimine si innesca e si giustifica (e sostanzialmente si e’ generato) in un preciso contesto culturale che sarebbe necessario verificare (ripeto: come non so / l’esperto sei Tu ben piu’ di me) ai fini del ravvedimento che anche il legame con quel contesto sia davvero venuto a cessare .
    Insomma non si pretende che un brigatista sia diventato un liberista o che un terrorista (nero) sia abbonato a Liberazione, ma che entrambi abbiano compiuto una riflessione sulla … inopportunita’ sociale di un certo metodo di azione (altrimenti detto, in caso contrario di giornalisti, giudici, sindacalisti o giuslavoristi da far fuori permane ancora un’ampia disponibilita’ …) .
    Idem, mutatis mutandis, per un mafioso o comunque un incallito rappresentante della criminalita’ organizzata (e “teorizzata”).

    Se no il ravvedimento non sarebbe altro che una passiva e generica “buona condotta” del reo che ormai ha scontato un bel po’ di pena e verso il quale sarebbe inutile (o vendicativo) insistere oltre (pero’ mi pare che l’intento della norma sia, anche letteralmente, diverso).

  7. La liberazione condizionale e la “lettera scarlatta” « Insorgenze scrive:
    Scritto il 29-10-2011 alle ore 17:47

    […] Fonte: davidesteccanella.postilla.it 12 luglio 2011 […]

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