21 giugno 2018
(Caso Spada) La Mafia dà testate solo…d’estate
Lascia parecchio perplesso l’addetto ai lavori leggere di una recente condanna a sei anni di carcere e in regime attuale di 41 bis (SIC !), più un anno di liberta vigliata, per una “testata” ripresa in TV.
Ma ormai vi era già stato il vaglio “supremo” della Suprema Corte e la risonanza mediatica di quel gesto aveva già ottenuto l’effetto di scatenare quell’istinto forcaiolo che ormai da anni la fa da padrone nella comune vulgata che boccia, a prescindere, e con sovrana indignazione, ogni pena inferiore all’ergastolo.
Sono lontani i tempi, giusto per ricordare qualche esempio, dei 12 anni e mezzo per omicidio inflitti a Terry Broome, o dei 16 anni a Ruggero Jucker o degli 8 anni e 6 mesi a Marco Barbone, o anche solo delle condanne comprese tra i 4 ai 5 anni agli amministratori del Banco Ambrosiano per il più grande crack finanziario della storia del bel paese o di quelle di migliaia di tangentari arrestati con gran cassa all’epoca di mani pulite, uno solo dei quali, il noto Cusani, effettivamente poi scontò un’esecuzione carceraria.
“Eh ma qui la testata era mafiosa”, si disse subito, e così quella ben minore pena tra i sei mesi e i tre anni, calibrata ai tempi con cura dall’antico legislatore per chi procura ad altri una frattura del setto nasale (art. 582 CP), ha potuto lievitare fino al raddoppio della pena massima originariamente prevista per il delitto di lesioni.
La soluzione giuridica che ha consentito ciò è stata l’applicazione del noto art. 7 introdotto nel 1991 dal D.L 152, che stabilisce che “per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà”.
Le condizioni previste dall’art. 416 bis del codice penale, sono quelle che definiscono mafiosa un’associazione a delinquere quando “coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva (segue descrizione dei vari delitti solitamente appannaggio del mafioso che qui non rilevano)”.
Trattandosi di norma di carattere generale, l’art. 7 si applica astrattamente a tutti i reati quale aggravante che punisce il metodo utilizzato da un reo non mafioso (altrimenti opererebbe direttamente il 416 bis CP), per compiere un delitto comune.
Vien da domandarsi quanto sia in concreto applicabile a reati quali false comunicazioni sociali, truffa o bancarotta fraudolenta, ma diciamo che nei reati contro la persona o contro l’amministrazione della giustizia detta aggravante risponde all’esigenza di maggiormente sanzionare chi mafioso non è, ma che usa metodologie mafiose per delinquere.
Venendo al caso che ci occupa, il Tribunale ha evidentemente ritenuto che quella testata non sia stata frutto una reazione violenta e improvvisa dovuta all’esasperazione di una pubblica gogna, come dimostrano i filmati delle ripetute domande incalzanti del giornalista, ma un’azione caratterizzata da forza di intimidazione in grado di provocare assoggettamento e omertà.
Si presume che tale requisito sia stato tratto dall’accertato vincolo tra l’autore (che mafioso non è) ed altri soggetti che evidentemente il Tribunale ha ritenuto viceversa “mafiosi”, anche se, è bene specificarlo, nessuna sentenza fino ad oggi aveva ancora accertato tale fatto.
Il principio che si ricava è che chi frequenta, ovvero è con loro imparentato, persone che hanno dato prova in precedenza di utilizzare metodologie analoghe a quelle mafiose, rischia di vedersi sempre aggravata la pena per qualsivoglia delitto autonomamente commesso, anche se, come nel caso di specie, istintivo ed estemporaneo, per colpa di “chi c’è dietro di lui”.
Il risultato finale risulta un tantino paradossale, perché ben difficilmente un vero mafioso si farebbe riprendere mentre colpisce con una testata da teppista un giornalista di un seguito programma televisivo e perché solitamente la mafia usa ben altri mezzi per consolidarsi sul territorio, ma tant’è.
Questi sono argomenti di natura sociologica che ovviamente non interessano un Tribunale che ha ritenuto di sanzionare quella testata con sei anni di carcere più uno di libertà vigilata, in attesa di depositare le motivazioni ove avrà modo di spiegare le ragioni di una tale condanna che allo stato lascia ancor più che perplessi, potremmo dire… basiti.